Attraversando la Romagna tra la fine di febbraio e i primi di marzo capitava (e capita ancora) di vedere in lontananza dei falò nelle campagne. Sono il retaggio dell’antica tradizione contadina dei fuochi di marzo (in dialetto ‘lom a merz‘), un rito magico e simbolico per propiziarsi le forze della natura in vista dell’arrivo della primavera e quindi del risveglio della terra.
Le date buone erano considerate gli ultimi tre giorni di febbraio e i primi tre di marzo (tutti gli altri lumi a marzo sono da considerarsi “eretici”). I fuochi duravano per ore e ore, anche l’intera notte, mentre uomini e donne e bambini si radunavano lì attorno per scaldarsi e fare lume a marzo, ovvero illuminare il mese che veniva auspicando portasse la primavera e tutto ciò che comportava.
Se per noi “contemporanei” la primavera coincide con il risveglio degli istinti amorosi, le diete in vista della prova costume e altre amenità, per gli antichi la primavera significava liberarsi dal gelo dell’inverno e riscoprire la speranza di avere una buona annata (specialmente agricola). La Romagna è infatti una terra storicamente vocata all’agricoltura. E l’agricoltura, come molte altre attività “all’aperto” era, ed è tutt’ora, soggetta alle avversità metereologiche. Per questo bruciavano la malasorte e il maligno, quasi che fossero intrappolati nelle sterpaglie e nei residui della potatura che andavano a costituire il grande fuoco nominato appunto Lòm a Merz, ricacciando il freddo e il rigore dell’inverno, incoraggiando e salutando così l’arrivo della bella stagione.
Riferimenti: brisighellaospitale.it – martinosavorani.it